venerdì 29 ottobre 2010

Ayahuasca un viaggio nell'anima

ESPERIENZE Se il subconscio è il nostro personale e inesplorato web, questa liana psicotropa dell'Amazzonia peruviana è il suo Google 

Testo e foto di Sergio Ramazzotti
Lo sciamano ha un sito Internet, un nome u-tente Skype, guida un fuoristrada giapponese di seconda mano e vi promette un viaggio che nessun tour operator è in grado di organizzare: quello dentro voi stessi, prima classe, posto di finestrino. Suoi sono i segreti dell'ayahuasca, una liana psicotropa che cresce nell'Amazzonia peruviana e che gli indios usano da sempre per raggiungere attraverso le allucinazioni uno stato di autoconsapevolezza o trance che altrove verrebbe definito Nirvana. E sua è stata l'idea, un decennio fa, di capitalizzare quei segreti organizzando cerimonie a pagamento per il mercato statunitense, dove l'ayahuasca, messa fuorilegge come sostanza stupefacente (non in Perú), suscita notevole interesse nell'ambiente medico (esperimenti hanno dimostrato la possibile efficacia nella cura delle tossicodipendenze e di alcune psicopatologie), in quello artistico (ne hanno fatto uso Paul Simon, Sting, Isabel Allende) e fra le sempre nutrite schiere di inveterati epigoni della Beat Generation, adepti della New Age, persone alla ricerca di sé o entronauti, come li ha definiti qualcuno, suggerendo l'analogia fra subconscio e web, il che mi spinge a dire, per averne provati gli effetti, che se il subconscio è il nostro personale web l'ayahuasca è il suo Google: la psicanalisi, a confronto, è un modem a 32k. Il nome dello sciamano è Diego Palma, nato quarant'anni fa a Lima, iniziato all'ayahuasca nella foresta, convertito al Buddismo, oggi residente nella valle sacra degli Incas, vicino a Cuzco. Palma vive in un'ampia proprietà circondata da un impeccabile prato all'inglese. Si chiama Ayahuasca-wasi, casa dell'ayahuasca, è una specie di resort olistico dove gli ospiti paganti di questa settimana sono una trentina. Tutti statunitensi, appaiono intimiditi dall'atmosfera da ashram, trattano Palma come un maestro o santone (il cranio rasato e la tunica arancio gli danno in effetti un'aria da Lama), chiedono consigli come a un guru. "La gente", dice lui, "viene qui aspettandosi d'incontrare una sorta di Don Juan, uno che ti legge nel pensiero, uno stregone. Mi chiamano sciamano, ma cos'è uno sciamano? Per quanto ne so è qualcuno che ti guida a un'esperienza che lui ha fatto prima di te. Ma, una volta dentro, sei tu che devi vedertela con te stesso: prendere l'ayahuasca equivale a concentrare due anni di psicoterapia in una notte. In quest'ottica, anche uno psicanalista è uno sciamano". La prima "cerimonia" è prevista per le nove di sera nel "tempio": la sacralità di entrambi i termini serve forse a compensare l'immagine di Milagros, sua moglie, che intorno alle otto comincia a battere cassa: 60 dollari a testa, in anticipo. I partecipanti, tesi, siedono in circolo, Palma, in ginocchio davanti a un altarino buddista, introduce con un breve discorso: "Ci vogliono coraggio e un po' di follia per affrontare quest'esperienza che vi cambierà la vita. Gli effetti dell'ayahuasca non finiscono quando terminano: talvolta durano tutta la vita". Quindi chiede a ciascuno dei presenti di raccontare a voce alta le ragioni per cui è qui e le sue aspettative, come in una seduta degli alcolisti anonimi. La maggior parte dichiara il rigetto verso la vita materialistica, il ripudio della società occidentale che ci rende aridi e aggressivi, l'ambizione di cambiare il mondo a partire da se stesso, e per ironia quanto sopra viene espresso proprio nella lingua franca simbolo di quell'Occidente malvagio da cui tutti vogliono fuggire. Un uomo del New Jersey dice di avere paura, perché durante la prima esperienza "mi sono trasformato in un mostro malvagio e pericoloso". S., ex art director a New York, oggi di professione "guaritrice spirituale", vuole sperimentare nuove tecniche di cura. K., una fotomodella di San Francisco, riservatissima, sul volto una costante espressione di tristezza, dichiara quasi in lacrime: "Ho così tanto dolore dentro di me, devo trovare un altro modo di vivere". Una coppia di medici non più giovani, originari dell'Azerbaigian, residenti a Philadelphia, confessa: "Nostro figlio ha una malattia mentale, nessuno riesce a trovare una cura. Sembra che l'ayahuasca sia stata usata con successo in casi simili, così siamo qui per provarla su di noi e decidere se portare anche lui". Un regista di Hollywood dice semplicemente: "Voglio incontrare Dio". Palma ha ascoltato impassibile, e al termine consegna a ciascuno un secchio di plastica: serve per il vomito, l'effetto collaterale più comune dell'ayahuasca (lui lo chiama "depurazione dalle energie negative"). Quindi consiglia: "Quali che siano gli effetti che sentirete, non spaventatevi e non cercate di opporre resistenza: lasciatevi andare, non potete lottare contro la vostra mente". Poi spegne le luci, lascia accese tre candele e intona un canto alla "Madre ayahuasca" (è così che la chiamano gli Indios), il cui decotto è contenuto in due poco ieratiche bottiglie di plastica arrivate ieri dall'Amazzonia. Beviamo il frappé terroso, amaro come il fiele, dopodiché lo sciamano soffia sulle candele e ciascuno si rannicchia sul pavimento ghiacciato dalla notte andina. Un'ora più tardi sono ancora perfettamente lucido, mentre le tenebre intorno a me risuonano di sospiri, rantoli, spaventosi conati di vomito, grida raccapriccianti miste a singhiozzi, tonfi di pugni sferrati sul pavimento. Dopotutto Palma mi aveva avvertito, quando gli avevo chiesto quale fosse la scena peggiore cui avesse assistito in una cerimonia: "Hai presente l'Esorcista? Beh, c'è stato un uomo al quale mancava solo che si girasse la testa al contrario. Dovetti trascinarlo fuori e placarlo con una nenia imparata dagli Indios: una crisi come quella può essere contagiosa, sotto ayahuasca le persone sono ipersensibili e se perdi il controllo della situazione sei finito". Dopo un'altra mezz'ora sono ancora in me e comincio a chiedermi che ci sto facendo qui, penso di mandare al diavolo tutto e uscire a guardare le stelle sopra le Ande. Poi mi ricordo del consiglio di lasciarsi andare, decido di provarci ancora. E a quel punto, all'improvviso, tutto accade. Eccomi sprofondare in una specie di Giardino delle delizie di Bosch tridimensionale e interattivo, dove i personaggi sono dipinti da Bosch o da me, non ha importanza, galleggio in questo iperuranio liquido, ne sono anch'io un abitante ma al tempo stesso il creatore e, ahimé, non si tratta della parte sinistra del trittico ma della destra, quella che rappresenta gli inferi. Da destra (quale destra, visto che ho gli occhi chiusi?) partono lampi di luce rossa, e scariche elettriche mi scuotono la parte destra del corpo causando al braccio e alla gamba convulsioni inarrestabili, e tuttavia piacevoli come un massaggio shiatsu. Sento ancora la colonna sonora dei mugolii e sospiri e rantoli e grida, solo che ora è come se tutti quei suoni echeggiassero dentro di me, o come se fossi io a emetterli: improvvisamente mi sento un tutt'uno con gli altri esseri umani nella stanza, in un esaltante picco di empatia virale che ci ha trasformati in neuroni e sinapsi dello stesso cervello, computer interconnessi nella stessa rete (non è quanto afferma la fisica delle particelle subatomiche?). Capisco cosa intende Palma quando parla di ipersensibilità e rischio di contagio. Quando gli altri rantolano voglio rantolare, quando sospirano sospiro, quando qualcuno emette un ringhio catartico fremo, e poi sembriamo calmarci tutti insieme, nuotare a bracciate più lente nel Giardino delle delizie, ciascuno dentro la sua versione. Infine trovo una porta: la varco, oltre ci sono le sale di un museo. Le teche sono ben illuminate e sui ripiani è disposto tutto ciò che, negli anni, ho rimosso, dimenticato ad arte, raccontato a me stesso di non sapere, in perfetto ordine e illustrato da didascalie fin troppo esaurienti. È la "proiezione esplosa", come la chiamerebbe un ingegnere, del mio subconscio: un diagramma che la maggior parte di noi non ha la fortuna o la sventura di poter vedere, e a lato un'avvertenza: fanne l'uso che credi. Lo sciamano riaccende le candele prima dell'alba. Oltre le fiammelle vedo la fotomodella che singhiozza fra le braccia del suo vicino. L'impiegato del New Jersey, in ginocchio sul pavimento, disegna spirali su un blocco con una frenesia da tarantolato. Il produttore in piena crisi catartica piange sdraiato con la faccia a terra. I medici azeri fissano il vuoto con un'espressione di serenità acquosa, che forse assomiglia alla mia. Nella stanza aleggia una sconcertante atmosfera di pace, mi viene da pensare che se al posto dei proiettili riuscissimo a sparare il principio attivo dell'ayahuasca avremmo vinto tutte le guerre, o smetteremmo per sempre di combatterne. Dopo la cerimonia non ho chiesto agli altri cosa avessero provato o come si sentissero. Posso immaginare tutto e il contrario di tutto, poiché è quanto avrei potuto dire io ed è esattamente questo che si trova nella nostra mente, dietro quelle porte di cui siamo così abili a nascondere le chiavi, e che l'ayahuasca spalanca davanti ai nostri occhi con brutalità. In una notte ho appreso su di me più di quanto avrei voluto sapere, e certamente non tutto: non si visita un museo del calibro dell'Ermitage in un giorno solo. Non mi dispiacerebbe fare un altro giro fra quelle teche, tuttavia non ne sento il bisogno immediato, perché per il momento ho abbastanza su cui lavorare: non saprei come scriverlo, so che mi ci vorrà molto tempo a leggerlo. 

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