Ljubljana.
Credo sia utile questa mia settimana back in ljubljana.
Forse il freddo , glaciale, sta influenzando so much my staying and return here.
Ma percepisco tutte le differenze con la realtà con Barcelona. Che non è solo sul livello personale. Non è solo questo. Quando sono andata a Barcelona da Ljubljana, ho avuto tante percezioni sulla differenza di queste due città/realtà, in cui ho vissuto. Ma ora, tornare qui, mi apre altre porte, altri feeling e pensieri.
Ljubljana resta per me una città magnifica, ricca, viva. Ma nel suo modo, à ça façon. Ovvio che tornando qui , a fine gennaio, inizio febbraio, con meno 10 gradi, nessun passante o quasi nella strada, ritmi diversi che arofittano del giorno.. che qui non sai nemmeno quando e come finisca, perchè la luce non è mai totalmente à full... be’, venedo da una città come Barcelona, dove persino alle 6 del mattino, on my way to the train station to go to the airport, ho incontrato almeno 20 persone, in un tragitto di 500 metri... un città dove tutto è concesso, tutto rimane aperto ad ogni ora, il sole è li, e quando non c’è è crisi, è terrore, è depressione, è “I should stay at home” ... be’... sono tante le differenze, si.
Quello che pensavo oggi, è la sensazione di esser tornata a casa, dopo un periodo di vacanze indefinite in una città dove dovevo tornare. Ma so che nn è cosi, che a Barcelona sto costruendo la mia vita, e di cui sento la mancanza, anche con la conspevolezza che ci ritornerò.
La sensazione che ho sempre avuto, flying tra le due realtà really often, era la percezione di superficialità in Barcelona, contro la profondità , riflessione , coscienza e autocritica che trovo in una città come questa. E tornando qui, con questo clima, capisco, o almeno posso immaginare il perche: non c’è nessuno nelle strade, la gente non vuole andare fuori, fa freddo, non c’è niente. Iil direttore dell’IIC dice che gli piace qui, ma “si annoia”. Ed è esattamente ciò che ho sempre criticato di ciò che la gente dice qui, ma ora capisco che ero anche io inclusa in questa meravigliosa bolla, piccola, sicura. Come in una coppia. E con questo non voglio dire che il mondo “vero” è fuori, che cos’è il mondo vero?! Si può davvero definire in qualche modo?! L’espressione mondo vero è forse il poter comprare uova e nutella a tutte le ore del giorno o della notte, solo facendo pochi passi da casa? È forse incrociare gente per la strada vestita in modo strano, o parlando ogni lingua, concerti in ogni bar, exibition in every famous building? È forse percepire la diversità everywhere, hippies, hipters, fighetti, uomini d’affari, senzatetto, etc...
mi trovo qui in rog (centro sociale in slovenia), e qui è un tipo di esempio che contiene ogni elemento della mia riflessione. I’essere qui con loro mi ha sempre dato l’impressione di essere nel centro di una vera azione, riflessione globale che racchiude tutti i punti alternativi di Ljubljana. Non sono mai stanchi di agire, di riflettere, di inventare, di interagire. Eppure qui, con loro, trovo ancora ora lo spirito giusto di considerare l’everyday life. Anche se ci sono contrddizioni anche qui, le persone fumano camel light, bevono in lattine di birra. Ma è questa vera contraddizione?! Non lo so..nn è detto che chi è contro the system, è per forza contro il materialismo, le multinazionali...
in fondo nel mondo contemporaneo, che cosa necessitiamo, tutti? L’essere soddisfatti.
E come avviene ciò?
Per alcuni, basta realizzarsi nella sfera personale, vedi chi decide di crearsi una famiglia, fare figli, stare vicino alla famiglia, ai suoi amici, allo stato in cui è nato e alla lingua a cui è abituato.
Poi ci sono altri tipi di persone, dove la soddisfazione è rappresentata dal lavoro, carriera. Vedere che il loro sforzo, che viene, of course, ricompensato con il giusto ammount di soldi, combina i due sforzi, e può promettere sempre di piu, con tempo e sacrifici. Quindi si perde poi facilmente le basi, da cui tutto è partito, e anche il fine che si desidera raggiungere.
Il terzo tipo di persone sono quelli che si sentono sazi di realizzare ciò in cui credono, a intervalli, perchè per forza ciò produce momenti di panico, caos. Perchè ciò che accade attorno non sempre favorisce il loro sforzo, che va al di là di quello personale, e al di là di quello legato alla sopravvivenza (quindi il lavoro).
Lo so, ne sono ben conscia, che tutto questo è stato teorizzato, spiegato, concettualizzato da molti motli altri prima di me.Come ben siega l'articolo qua sotto, sull'importanza di non denigrare il passato, ma saper come "tenerlo presente" (divertente espressione in questo caso). E non escludo, anzi, che queste mie riflessioni/finalizzazioni siano frutto di queste letture, confronti, scoperte. In questo caso ci starebbe bene una referenza,una citazione, qualcosa che dimostrasse che il mio pensiero è condiviso e reale.
Ma so che lo è, e in questo caso, forse perchè non è un paper, ma più uno sfogo, non sento il bisogno di cercarlo. Primo perchè mi perderei, in pagine internet, in libri sul mio scaffale (che purtroppo è shared e distribuito in troppe città, troppi luoghi e posti). Forse mi sento più un’anima che vuole scrivere, esprimersi, poetizzare.
Un essere umano, insomma.
Il che, in certi momenti, non è poi così male.
If I ruled the world: Steven Pinker
We should stop idealising the past and appreciate the present. The world is much less violent than it used to be
My first edict as global overlord would be to impose the following rule on pundits: No one may bemoan a decay, decline, or degeneration without providing (1) a measure of the way the world is today; (2) a measure of the way the world was at some point in the past; (3) a demonstration that (1) is worse than (2).
This decree would, first of all, eliminate tedious jeremiads about the decline of the language. The genre has been around for centuries, and if the doomsayers were correct we would now be grunting like Tarzan. But not only do we see vast amounts of clear and competent prose in everyday outlets like Wikipedia and Amazon reviews, but a gusher of superb writing appearing daily, as anyone who has lost a morning to sites like The Browser and Arts and Letters Daily can attest.
Language mavens commonly confuse their own peeves with a worsening of the language. A century ago editors issued fatwas against barbarous innovations such as “standpoint,” “bogus,” “to run a business,” and “to quit smoking.” Decades ago they fulminated against “six people” (as opposed to persons), “fix” (for repair), and the verbs “to contact” and “to finalise.” Today this linguistic contraband is unexceptionable, if not indispensable. Also vilified is the seepage of new technological jargon into the language (leverage, incentivise, synergy). Yet old technological jargon (proportional, placebo, false positive, trade-off) has made it easier for everyone to think about abstract concepts, and may even have contributed to the Flynn effect, the relentless increase in IQ scores during the 20th century.
And speaking of technology, today’s Luddites have a short memory. Parents who lament the iPods and mobile phones soldered onto the ears of teenagers forget that their own parents made the same complaint about them and their bedroom telephones and transistor radios. The abbreviated prose in tweets and instant messages is no more likely to corrupt the language or shorten attention spans than the telegrams, radio ads, and advertising catchphrases of yesteryear. Email can seem like a curse, but who would go back to stamps, phone booths, carbon paper, and piles of phone messages? And now that dinner companions can fact-check any assertion on an iPhone, we are coming to realise how many of our everyday beliefs are false—a valuable lesson in the fallibility of memory.
But nowhere is the confusion of a data point with a trend more pernicious than in our understanding of violence. A terrorist bomb explodes, a sniper runs amok, an errant drone kills an innocent, and commentators ask “What is the world coming to?” Yet they seldom ask, “How bad was the world in the past?”
By just about any quantitative standard, the world of the past was much worse. The medieval rate of homicide was 35 times the rate of today, and the rate of death in tribal warfare 15 times higher than that. Collapsed empires, horse-tribe invasions, the Crusades, the slave trade, the wars of religion, and the colonisation of the Americas had death tolls which, adjusted for population, rival or exceed those of the world wars. In earlier centuries the wife of an adulterer could have her nose cut off, a seven-year-old could be hanged for stealing a petticoat, a witch could be sawn in half, and a sailor could be flogged to a pulp. Deadly riots were common enough in 18th-century England to have given us the expression “to read the riot act,” and in 19th-century Russia to have given us the word pogrom. Deaths in warfare have come lurchingly but dramatically downward since their postwar peak in 1950. Deaths from terrorism are less common in today’s “age of terror” than they were in the 1960s and 1970s, with their regular bombings, hijackings, and shootings by various armies, leagues, coalitions, brigades, factions and fronts.
And no, I am not hypocritically tilting at my own “disturbing new trend.” In 1777 David Hume wrote, “The humour of blaming the present, and admiring the past, is strongly rooted in human nature.” A century before him, Thomas Hobbes identified its source: “Competition of praise inclineth to a reverence of antiquity. For men contend with the living, not with the dead.” People also blame the present out of historical ignorance and statistical illiteracy, and because they mistake changes in themselves—the responsibilities of adulthood, the vigilance of parenthood, the diminishments of ageing—with changes in the world.
Regardless of its causes, thoughtlessly blaming the present is a weakness which, even if it is never outlawed, ought to be resisted. Though commonly flaunted as a sign of sophistication, it can be an opportunity for one-upmanship and an excuse for misanthropy, especially against the young. And it corrodes an appreciation of the institutions of modernity such as democracy, science, and cosmopolitanism which have made our lives so much richer and safer.
Steven Pinker is professor of psychology at Harvard University and the author, most recently, of “The Better Angels of Our Nature: The Decline of Violence in History and its Causes” (Allen Lane)